Novembre 1959. Poco dopo l’uscita di Una vita violenta, Pier Paolo Pasolini esplora Milano con la stessa furia, la stessa passione con cui nei primi anni Cinquanta aveva esplorato Roma: è la sorprendente trasferta di un vorace aggressore di città, impaziente di appropriarsele fisicamente e linguisticamente. Accompagnato da alcuni giovani milanesi teppisti quanto basta, Pasolini gira per trani, le vecchie bettole milanesi, e per bar luccicanti di Corso Buenos Aires, perlustra ritrovi di teddy boys e i nights del centro; frequenta balere di periferia; si spinge a Metanopoli; guarda da fuori le ville neoclassiche lambite dall’espansione della città e si avventura nell’hinterland, tra Novate e Bollate. Nasce così La Nebbiosa, sceneggiatura non utilizzata dai registi che la commissionarono e opera letteraria per la prima volta edita integralmente dal Saggiatore, con la sequenza degli episodi rispondente alla prima stesura scritta da Pier Paolo Pasolini. La Nebbiosa è un noir picaresco e disperato ambientato a Milano nella notte di capodanno. In cerca di avventure, il Gimkana, il Teppa, il Rospo, il Contessa, Mosè e Toni rubano due auto e si mettono per strada; nella chiesa di Bollate trafugano i gioielli alla statua della Madonna: una lunga collana di pietre bianche, un’altra di pietre nere, poi un’altra ancora, e una quarta, e il diadema, gli orecchini, due tre braccialetti, due tre anelli, ma con i gioielli, falsi, addobbano la regina delle barbone, una vecchia che cammina sola per strada nella notte. Poi si precipitano a sconvolgere la borghesia milanese infiacchita in una casa in periferia, trasformando la festa in un’orgia. È un’avventura, la loro, ma l’avventura finirà male. Sullo sfondo di una skyline dominata da sagome di grattacieli, tra cui il Galfa e il Pirelli, si susseguono le scene in un caleidoscopio di personaggi che corrono insieme ai teddy boys: gli ubriachi nei trani che cantano da spaccare i timpani, la fattucchiera pallida e profetica, la grassa Nella, ex soubrette della compagnia di Macario, il maggiordomo dei marchesi Valtorta che intrattiene la banda con vari travestimenti. Con prepotenza − ma inesorabilmente, e a riprova di un ininterrotto dialogo a distanza − la Milano della Nebbiosa appare come una variante della Milano di Giovanni Testori, che negli stessi anni andava raccontando le periferie, i giovani, la malavita, gli amori, il cinismo e insieme il lirismo che anima la realtà della Milano popolare, vecchiotta, alle prese con tentazioni neocapitalistiche. La Nebbiosa è la sceneggiatura di un film mai girato, ma è anche l’inchiesta in presa diretta sui giovani milanesi del boom economico. Il romanzo nero di una Milano disperata e violenta.
E Pasolini inventò i ragazzi di vita alla milanese Un noir che per molti anni era stato dato per perso di Antonio D’Orrico
“Corriere della Sera – Sette” – 25 ottobre 2013 di Antonio D’Orrico
Dopo Ragazzi di vita e Una vita violenta, Pier Paolo Pasolini non ha scritto più veri romanzi, probabilmente perché girare film è più divertente e, per certi versi, meno faticoso (e poi è più mondano, tiene compagnia). Però ha scritto una cosa dalla quale si può capire che tipo di romanziere poteva ulteriormente diventare. La cosa è una sceneggiatura, intitolata La Nebbiosa , scritta nel 1959, che ha avuto una vicenda tormentata (per lungo tempo è stata data per perduta ed è rispuntata solo nel 1995 dall’archivio della rivista “Filmcritica” ). Adesso la casa editrice Il Saggiatore la pubblica per la prima volta in versione integrale. La sceneggiatura Pasolini la buttò giù a penna chiudendosi per una ventina di giorni in un albergo di Milano. Gli era stata commissionata da un industriale milanese, Renzo Tresoldi, improvvisatosi produttore cinematografico. Tresoldi sarebbe più esatto ribattezzarlo “Un soldo e mezzo” perché, a quanto pare, pagava la metà di quanto prometteva (toccò anche a Pasolini che se ne lamentò pubblicamente in un articolo di giornale). La Nebbiosa è la storia del Rospo, del Teppa, dell’Elvis, del Contessa, del Gimkana e altri teddy boys, i giovani teppisti allora di moda, in cerca di avventure nella Milano fine Anni Cinquanta. In altre parole, è un Ragazzi di vita alla milanese, una Vita violenta all’ombra del Duomo. Pasolini aveva già trasportato al cinema il format, come si direbbe oggi, dei suoi romanzi (famosi ma pure famigerati perché variamente denunciati e processati per oscenità), scrivendo per Mauro Bolognini il film La notte brava. Anche La Nebbiosa è il racconto di una notte brava, una notte speciale essendo quella dell’ultimo dell’anno, e Pasolini usò il metodo di lavoro che aveva collaudato nelle borgate romane: sopralluoghi sui posti, interviste sul campo, prelievi di modi di dire e di parlare, coinvolgimento nella stesura del testo delle persone reali alle quali si ispiravano i personaggi. Quando fu incaricato della sceneggiatura, il poeta cercò, per prima cosa, i teddy boys milanesi protagonisti della storia che aveva in mente. Glieli presentò il grande (fatemelo dire) Umberto Simonetta, il drammaturgo e paroliere (La ballata del Cerutti e tante altre canzoni di Giorgio Gaber) che aveva un cugino, Giuseppe Pucci Fallica (il Gimkana), personalità di spicco della «gioventù bruciata» milanese del tempo. Gimkana presentò lo scrittore ai suoi amici e il progetto poté decollare. Trovo queste notizie nella bella introduzione di Alberto Piccinini al libro del Saggiatore e in un articolo, che ricostruisce alla perfezione quel mondo, uscito a firma di Elisabetta Rosaspina sul “Corriere” all’epoca del ritrovamento del manoscritto.
Il film poi si fece. Ma non si intitolò né La Nebbiosa, né (meno male) Polenta e sangue (un evidente calco preleghista di Sangue e arena), che erano alcuni dei titoli ipotizzati da Pasolini, bensì, scerbanenchianamente, Milano Nera. Fu vietato ai minori di 18 anni, rimase in programmazione nemmeno una settimana (nel settembre 1963) e non passò alla storia del cinema. Gli attori erano Kora de Ness, Nicoletta Rizzi, Alessandro Quasimodo, più qualche non professionista. I registi si chiamavano Pino Serpi e Gian Rocco. Quest’ultimo una sua particina nella storia del cinema se l’è ritagliata perché, come ricorda Alberto Piccinini, in seguito girò un western all’italiana, Giarrettiera Colt, con una protagonista femminile (Nicoletta Machiavelli) che ha ispirato Quentin Tarantino per il personaggio di Uma Thurman in Kill Bill . Della sceneggiatura di Pasolini nel film resta poco (anche se il suo nome è sparatissimo nelle locandine, e questo lo fece infuriare di nuovo con Tresoldi). Ed è un peccato, perché La Nebbiosa è una sceneggiatura molto scritta in cui è forte la presenza del narratore che Pasolini era già ed è altrettanto forte l’impronta del regista che sarà. Ovviamente di tutti i riferimenti politici, sociologici, polemici, dei quali il testo è pieno, nella pellicola non c’è nemmeno l’ombra. Ma ora proviamo a ridare alla Nebbiosa quello che è della Nebbiosa, leggendola come si legge un romanzo, perché lo merita. Sin dalla prima scena si capisce che la vera protagonista della storia è la città di Milano fotografata nei suoi aspetti più metropolitani e meno tradizionali. Come il quartiere, allora nuovissimo, di Metanopoli (un nome che sarebbe potuto venire in mente solo a un futurista): «Un luccicante bar della zona Metanopoli: splende il neon sulle vernici, sui metalli. Dalle grandi vetrate si vede l’esterno: un panorama crudele di file di luci e palazzi di vetro, simili a globi di chiarore. Un ragazzo si avvicina al telefono, a una parete violentemente maiolicata, astratta». È una Milano rutilante e sinistra quella descritta da Pasolini nella sceneggiatura. Dove svettano le sagome (quasi da Gotham City) dei grattacieli Galfa e Pirelli: «Sono immagini stupende: sfolgorano di luci come giganteschi diamanti, come colossali fantasmi pietrificati». Una immagine che è quasi una premonizione urbanistica perché la zona dove sono ambientati alcuni episodi della storia, tra le ex Varesine e il quartiere Isola, è quella dove oggi sta sorgendo la Milano più avveniristica con il grattacielo di César Pelli e le altre torri che lo circondano. L’umanità raccontata dallo scrittore è meno rutilante ma altrettanto sinistra dell’architettura. Annunciati da una canzonetta di un Celentano d’antan che fa loro da colonna sonora («Oh, teddy girl, pupa in technicolor / Oh teddy girl, c’è un jukebox nel tuo cuor…»), i teddy boys protagonisti sono rampolli della borghesia e della piccola borghesia («i figli reali dei nostri avvocati, dei nostri professori, dei nostri luminari», scrive Pasolini) che si ribellano in nome di un moralismo abbastanza truce alla realtà in cui vivono. Il loro manifesto è in un discorso del Rospo, il capo della banda: «Se ne vedono di tutti i colori… Donne che fanno cornuti facili i loro mariti… i commenda pancioni che vanno con le ragazzine minorenni… Magnaccia… prostitute… Gli ambigui, poi, quelli del terzo sesso! Quelli mi fanno proprio schifo… Sangue, stasera!». Con gli omosessuali il Rospo ce l’ha in maniera particolare: «Se fossi il capo della polizia, gli farei avere la vita facile, io, a questi! Li metterei tutti nelle camere a gas… Nei forni crematori… quella gente maledetta, rovina della società!». Trasformati in giustizieri della notte, i teddy boys pasoliniani fanno irruzione in un night. Nella descrizione del locale Pasolini pasolineggia un po’. La cantante che si sta esibendo è, infatti, Laura Betti, sua attrice, amica, fidanzata, cuoca e musa, che con i suoi «capelli biondi di giaguara» interpreta una canzonetta con testo di sua maestà Alberto Moravia (all’epoca indiscusso re della letteratura italiana): «Mi butto, mi butto, mi butto…». La Betti intona poi una canzone con versi di Mario Soldati: «I hate Barocco! I hate Scirocco!», mentre alcune «coppie elegantissime – personaggi di Camilla Cederna – cominciano a ballare». L’incanto della serata è rotto dai teddy boys che scatenano una rissa furibonda con «i commenda pancioni». Nel corso della lunga notte brava dell’ultimo dell’anno, i ragazzi di vita alla milanese, in sella alle loro moto, vestiti con chiodi di pelle e jeans, percorrono come ronde frenetiche la città prendendosela con chi gli capita a tiro (guardoni, gay, amanti clandestini). Tra le loro vittime c’è un terzetto di signore-bene, ingioiellate e impellicciate, che vengono coinvolte in un’orgia: «Il Rospo si rivolge a Ornella, la più carina, una ragazza molto sofisticata, che parla anche lei col tono di via Montenapoleone, leggermente démodé, e quindi quasi come la signorina snob della Valeri». Mentre Nella, un’altra delle signore-bene, a un certo punto si ribella alla tracotanza dei giovanotti: «Sai chi sono stata io? La modella della signorina Grandi Firme, cocco bello! E mio marito mi ha conosciuta ch’ero soubrette della compagnia di Macario, che quella volta faceva furori!». Poi, in una esplicita citazione del famoso strip tease di Aichè Nanà al ristorante Rugantino di Roma, una pietra miliare nella storia del costume italiano (correva l’anno 1953), l’ex soubrette di Macario «con violenza, quasi con brutalità, si toglie il vestito, la sottoveste, il reggipetto, le mutandine. È nuda in un attimo». Uno «spogliarello eroico, all’antica» che lascia di sasso il Rospo e la sua banda. Pasolini cerca di dare spiegazioni politico-sociologiche al comportamento dei suoi teppisti meneghini. Il Rospo ha un padre fascista, rimasto fascista a differenza di altri che hanno fatto carriera, che ha dovuto ricominciare da zero perché i partigiani gli hanno ammazzato a botte davanti agli occhi un fratello. Sempre il Rospo si scaglia contro Toni, detto Elvis, accusandolo di averlo visto spellarsi le mani per gli applausi alla festa dell’Unità. Elvis risponde: «Ma va’, che io sono andato lì a ballare, a sentire il Celentano, cretino!». E il Teppa cerca di mettere pace: «Ma muchela lì, sem chì a mangià minga a parlà de pulitica…».
Non ci sarà lieto fine. Sui teddy boys pesa la nera profezia fatta da una cartomante in un trani all’inizio dell’avventura: «Prima di mattina… almeno uno di quelli là… ci lascia le penne…». La tragedia si consumerà all’alba. La scenografia, quanto mai appropriata, è quella dello stadio di San Siro: «L’immenso ovale posa sui prati lisci e fangosi, è una forma irreale, folle, nel silenzio doloroso, funebre del giorno che nasce». È stato un gran peccato che Pier Paolo Pasolini non abbia continuato a scrivere romanzi. Proprio La Nebbiosa ci fa capire che grande scrittore di noir avrebbe potuto essere.
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