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Immagine del redattoreMauro Bramardi

Fëdor Dostoevskij, L’assassinio dell’usuraia (da Delitto e castigo)


Il colpo la prese proprio in cima al cranio, anche a causa della sua bassa statura. «Io, quella vecchia maledetta, l’ammazzerei e la svaligerei, e senza nessuno scrupolo di coscienza, te l’assicuro […]. Se l’ammazzassimo e ci prendessimo e suoi soldi, per dedicarci poi con questi mezzi al servizio di tutta l’umanità e della causa comune, non credi che un solo piccolo delitto sarebbe cancellato da migliaia di opere buone? Per una vita, migliaia di vite salvate dallo sfacelo e dalla depravazione. Una morte sola, e cento vite in cambio: ma questa è aritmetica! E poi, che cosa conta sulla bilancia generale la vita di quella vecchiaccia tisica, stupida e cattiva? Non più della vita di un pidocchio, di uno scarafaggio; anzi, vale meno, perché quella vecchia è dannosa. Distrugge la vita altrui […]» È legittimo, in certe condizioni, uccidere? È legittimo, per un fine superiore? È moralmente accettabile che alcuni uomini “superiori” uccidano? Si può uccidere senza subirne le conseguenze? Queste le questioni al centro di Delitto e castigo, un romanzo che per certi versi adotta abilmente le tecniche del genere poliziesco, ma che fin dall’inizio insiste sullo scavo interiore dell’animo del protagonista. «È il rendiconto psicologico di un delitto. Un giovane, che è stato espulso dall’Università e vive in condizioni di estrema indigenza, suggestionato, per leggerezza e instabilità di concezioni, da alcune strane idee non concrete che sono nell’aria, si è improvvisamente risolto a uscire dalla brutta situazione. Ha deciso di uccidere una vecchia che presta denaro a usura…» (F. Dostoevskij). Come l’altra volta la porta si socchiuse in un minuscolo spiraglio, e di nuovo due occhi pungenti e diffidenti lo fissarono dall’oscurità. A quel punto Raskòl’nikov si smarrì, e ci mancò poco commettesse un grave errore. Temendo che la vecchia potesse spaventarsi all’idea che fossero soli, e non sperando che il suo aspetto potesse farle cambiare idea, afferrò la porta e la tirò verso di a sé affinché alla vecchia non saltasse in mente di richiuderla. Rendendosi conto della cosa, quella non tirò la porta verso di sé, ma non lasciò nemmeno andare la maniglia, di modo che ci mancò poco che egli la trascinasse sulle scale assieme alla porta. Vedendo inoltre che lei se ne stava di traverso sulla porta e non gli permetteva di passare, egli le si diresse dritto addosso. Questa fece un salto, spaventata, voleva dire qualcosa ma fu come se non ci riuscisse, e intanto lo guardava con tanto d’occhi. «Salute a voi, Alëna Ivànovna,» cominciò lui nel modo più disinvolto possibile, ma la voce non gli ubbedì, si spezzò e cominciò a tremare. «Io vi… ho portato una cosa… ma è meglio se venite qua… alla luce…» e, spingendola da parte, direttamente, senza essere stato invitato, passò nella stanza. La vecchia gli corse dietro; le si era sciolta la lingua: «Santo cielo! Ma che volete?… Chi siete? Che vi serve?» «Vi prego, Alëna Ivànovna… sono un vostro conoscente… Raskòl’nikov… ecco, vi ho portato il pegno che vi avevo promesso ier l’altro…». E le tendeva il pacchetto. La vecchia avrebbe voluto dare un’occhiata al pegno, ma subito piantò gli occhi dritti in quelli di quell’ospite non invitato. Guardava con attenzione, con rabbia e diffidenza. Trascorse un minuto circa; a lui sembrò persino che nello sguardo di lei ci fosse una sorta di derisione, come se avesse già indovinato tutto quanto. Si rese conto che si stava smarrendo, che era quasi in preda al terrore, un terrore tale che, gli sembrava, se lei avesse continuato a guardarlo a quel modo, senza dire una parola, per un altro mezzo minuto, egli sarebbe scappato via. «Ma che avete da guardarmi a questo modo, non mi avete riconosciuto, forse?» proferì all’improvviso, anch’egli con rabbia. «Se lo volete lo pigliate, altrimenti andrò da qualcun altro, non ho tempo da perdere, io.» Non aveva nemmeno pensato di parlare a quel modo, ma le parole gli erano venute fuori da sole, all’improvviso. La vecchia ritornò in sé, ed evidentemente il tono deciso dell’ospite la rinfrancò. «Ma com’è che voi, bàtjuška, così all’improvviso… di che si tratta?» domandò, guardando il pegno. «Un portasigarette d’argento: ve ne avevo pur parlato volta scorsa.» Lei protese la mano. «Ma com’è che siete così pallido? Ecco, vi tremano anche le mani! Vi siete forse spaventato, bàtjuška?» «La febbre,» rispose lui a scatti. «Si diventa pallidi per forza… ma non è nulla» soggiunse, articolando appena le parole. Le forze lo stavano nuovamente abbandonando. Ma la risposta apparve verosimile; la vecchia prese il pegno. «Cos’è?» domandò, dopo aver guardato nuovamente fisso Raskòl’nikov, e soppesando l’involto tra le mani. «Una cosa, un portasigarette… d’argento… guardatelo.» «Ma non sembra fatto d’argento… E guarda un po’ come l’ha incartato.» Cercando di sciogliere la cordicella e voltandosi verso la finestra, verso la luce (teneva tutte le finestre chiuse, nonostante l’afa), per alcuni secondi la vecchia lo lasciò completamente perdere e gli diede le spalle. Egli si slacciò il soprabito e liberò la scure dal cappio, ma ancora non la tirò fuori, limitandosi a sorreggerla, con la mano destra, sotto il vestito. Le braccia erano terribilmente deboli; egli stesso avvertiva come, d’istante in istante, divenissero sempre più intorpidite e legnose. Aveva paura di mollare e lasciar cadere la scure… all’improvviso fu colto da una specie di giramento di testa. «Ma guarda come l’ha legato!» gridava la vecchia indispettita, e fece per voltarsi. Non c’era un solo istante da perdere. Tirò fuori del tutto la scure, la brandì con entrambe le mani e, appena consapevole di quel che stava facendo, quasi senza sforzo, quasi macchinalmente, la abbassò sulla testa dalla parte opposta alla lama. Era come se in quel momento non avesse alcuna forza. Ma appena ebbe abbassato la scure, subito sentì che, dentro di lui, la forza stava nascendo. La vecchia era come sempre a capo scoperto. I capelli chiari e brizzolati di lei, unticci, che secondo la sua abitudine portava cosparsi di grasso, erano legati in una sorta di treccina a coda di topo, e raccolti con un frammento di pettinino di corno, che le sporgeva sulla nuca. Il colpo la colse proprio in cima alla testa, anche a causa della bassa statura di lei. La vecchia si lasciò sfuggire un grido, ma molto debole, e all’improvviso s’accasciò al suolo, anche se fece in tempo a sollevare entrambe le braccia verso la testa. In una mano continuava ancora a stringere il “pegno”. A quel punto, con tutte le sue forze, egli le assestò un secondo colpo, e poi un altro, tutti di piatto, e tutti sulla sommità del capo. Il sangue cominciò a zampillare come da un bicchiere rovesciato, e il corpo si rovesciò sulla schiena. Egli arretrò, lasciò che cadesse e subito si buttò verso il volto di lei: era già morta. Gli occhi erano sbarrati, sul punto di schizzar fuori dalle orbite, mentre la fronte e tutta la faccia erano raggrinzite e stravolte da uno spasimo. Egli depose la scure sul pavimento, accanto alla morta, e subito frugò in tasca, cercando di non insudiciarsi con il sangue che scorreva, in quella stessa tasca destra dalla quale la volta precedente lei aveva tirato fuori le chiavi. Era nel pieno possesso delle proprie facoltà, gli offuscamenti e i giramenti di testa ormai erano spariti, ma le mani continuavano a tremargli. In seguito ebbe a ricordare che era stato persino molto accurato, molto cauto, attento a non insudiciarsi… Trovò subito le chiavi; tutte, come l’altra volta, erano legate assieme in un unico mazzo, a uno stesso anellino. Immediatamente corse nella stanza da letto con le chiavi. Si trattava di una stanza molto piccola, con un grande kiot di immagini sacre. Lungo l’altra parete c’era un grande letto, molto pulito, con una trapunta di seta fatta di avanzi. Contro la terza parete c’era un comò. Accadde una cosa strana: appena ebbe cominciato a provare le chiavi per aprire il comò, appena ebbe sentito il loro tintinnare, fu assalito da uno spasimo. All’improvviso gli venne voglia di lasciar perdere tutto e andarsene. Ma fu solo questione di un istante: era tardi per andarsene. Rise persino di sé, quando all’improvviso un altro pensiero inquietante l’assalì. All’improvviso gli sembrò che la vecchia, forse, potesse essere ancora viva, e potesse tornare in sé. Lasciò perdere chiavi e comò, tornò indietro di corsa, al corpo, afferrò la scure e la brandì ancora una volta sopra la vecchia, ma non la calò. Non poteva esserci dubbio che fosse morta. Dopo essersi chinato a esaminarla nuovamente più da vicino, vide con chiarezza che il cranio era spaccato, e persino spostato un po’ da una parte. Voleva tastare con un dito, ma ritirò la mano; anche senza farlo la cosa era evidente. Di sangue in quel frattempo ne era sgorgata un’intera pozza. All’improvviso egli noto al collo di lei un cordoncino, lo strattonò, ma il cordoncino era ben saldo e non si spezzò; perdipiù s’inzuppò di sangue. Cercò di strappano via dal davanti, ma c’era qualcosa che l’impediva, s’impigliava. In preda all’agitazione voleva mettere nuovamente mano alla scure per spaccare la cordicella lì, sul corpo, dall’alto, ma gli mancò il coraggio, e a fatica, sporcandosi le mani e la scure, dopo averci armeggiato un paio di minuti, tagliò il cordoncino senza toccare il corpo con la scure e tolse quel che vi era appeso: non si era sbagliato, si trattava di un borsellino. Attaccate al cordoncino c’erano due croci, di cipresso e di rame e, oltre a ciò, un’immagine smaltata; e lì, assieme a loro, pendeva un piccolo borsellino bisunto, di camoscio, con una ghiera e un anellino d’acciaio. Il borsellino era pieno zeppo di roba; Raskòl’nikov se lo ficcò in tasca senza guardare, le croci le buttò sul petto alla vecchia e, afferrata questa volta anche la scure, ritornò precipitosamente nella stanza da letto. S’affrettava terribilmente, afferrò le chiavi e cominciò di nuovo a darsi da fare. Ma sempre senza successo: le chiavi non entravano nella serratura. Le mani non gli tremavano tanto, ma continuava a sbagliarsi; e vedeva, per esempio, che quella non era la chiave giusta, che non andava bene, ma s’ostinava a farla entrare lo stesso. All’improvviso cercò di ricordare, e gli venne in mente che quella grossa chiave con la fernetta dentellata che ballonzolava lì, assieme alle altre piccole, non poteva assolutamente essere quella del comò, come già gli era venuto in mente la volta precedente, ma di un qualche bauletto, e che in questo bauletto era forse stato nascosto tutto quanto. Lasciò perdere il comò e si mise subito a cercare sotto al letto, sapendo che le vecchie di solito ficcano i bauletti sotto i letti. E così era: c’era un bauletto piuttosto grosso, lungo più di un aršin, col coperchio convesso, rivestito di marocchino rosso, con piccole borchie d’acciaio. La chiave dentata entrò perfettamente e l’aprì. Sopra tutto, sotto un lenzuolo bianco, c’era un pellicciotto di lepre con la fodera rossa; sotto c’era un abito di seta, quindi uno scialle e lì, sul fondo, sembrava ci fossero soltanto stracci. Innanzitutto Raskòl’nikov si ripulì le mani sporche di sangue con la fodera rossa. “E rossa, e sul rosso il sangue si noterà di meno” gli venne da pensare, e all’improvviso si riprese: “Signore! Non starò mica impazzendo?” pensò spaventato. Ma come ebbe smosso quello straccio, improvvisamente da sotto il pellicciotto scivolò fuori un orologio d’oro. Rovesciò subito tutto quanto. Effettivamente agli stracci erano mescolati degli oggetti d’oro – con ogni probabilità, tutti pegni, scaduti e non – braccialetti, catenine, orecchini, spille e simili. Alcuni erano contenuti in astucci, altri semplicemente avvolti in carta da giornale, ma con cura e cautela, in fogli doppi, legati con cordoncini. Senza perdere tempo se ne riempì le tasche dei pantaloni e del soprabito, senza esaminarli e senza aprire gli involti e gli astucci; ma non fece in tempo a raccogliere molto… A un tratto sentì che nella stanza della vecchia qualcuno stava camminando. Si fermò, e s’azzittì come un morto. Ma tutto era silenzioso, poteva darsi se lo fosse sognato. All’improvviso s’udì distintamente un lieve grido, come se qualcuno, piano e a scatti, avesse emesso un gemito, per poi tacere. Quindi calò nuovamente un silenzio di tomba, per uno o due minuti. Lui se ne stava accosciato accanto al bauletto, e aspettava, respirando appena, ma a un tratto scattò in piedi, afferrò la scure e corse fuori dalla camera da letto. In mezzo alla stanza c’era Lizaveta, con un grosso involto tra le mani, e fissava intorpidita la sorella assassinata, ed era bianca come uno straccio, e come senza la forza di gridare. Quando l’ebbe visto arrivar fuori di corsa, si mise a tremare come una foglia, d’un tremito lieve, e il suo corpo fu percorso da spasimi; sollevò una mano, si coprì la bocca, ma comunque il grido non uscì, e lentamente, indietreggiando, cominciò ad allontanarsi da lui, verso un angolo, guardandolo fisso, dritto in faccia, ma continuando a non gridare, proprio come se l’aria non le bastasse per gridare. Lui le si scagliò addosso con la scure: le labbra di lei si contorsero così penosamente, come ai bambini molto piccoli, quando cominciano ad aver paura di qualcosa, guardano fisso l’oggetto che li spaventa e si preparano a urlare. E quest’infelice Lizaveta era a tal punto sprovveduta, abbrutita e terrorizzata, che non sollevò nemmeno le braccia per difendersi il viso, anche se quello sarebbe stato il gesto più necessariamente naturale in quel momento, perché la scure era sollevata dritta sopra il suo volto. Si limitò soltanto a sollevare appena la mano libera, la sinistra, ma la fermò ben lontana dalla faccia, e lentamente la protese in avanti, verso di lui, come per tenerlo lontano. Il colpo andò a finire dritto sul cranio, di taglio, e in una volta sola spaccò tutta la parte superiore della fronte, quasi fino al sincipite. Lei subito s’accasciò. Raskòl’nikov era completamente smarrito, afferrò il fagotto di lei, lo buttò via e corse in anticamera. Il terrore l’assaliva sempre di più, in particolare dopo questo secondo assassinio, del tutto inatteso. Voleva andarsene al più presto di lì. E se in quell’istante fosse stato in grado di vedere e ragionare; se avesse solo potuto pensare a tutte le difficoltà della sua situazione, a tutta la sua disperazione, all’orrore e a tutta l’assurdità, comprendendo al tempo stesso quanti ostacoli e forse anche quante malvagità gli restavano ancora da superare e da compiere per strapparsi da lì e trascinarsi fino a casa, allora è molto probabile che avrebbe lasciato perdere tutto e sarebbe andato subito egli stesso a costituirsi, e non tanto per paura di quel che poteva capitargli, quanto per il solo orrore e repulsione per quanto aveva commesso. La repulsione, in particolare, si levava e cresceva dentro di lui di minuto in minuto. Per nulla al mondo sarebbe tornato al bauletto, e persino nella stanza. Ma una sorta di svagatezza simile alla pensosità ebbe per un poco la meglio su di lui; a tratti era come se fosse stordito, o, piuttosto, dimentico della cosa principale, e si attaccava alle piccolezze. D’altronde, dopo aver dato un’occhiata in cucina e aver visto che sulla panca c’era un secchio mezzo pieno d’acqua, gli venne in mente di lavarsi le mani e la scure. Le mani erano insanguinate e appiccicose. Infilò la scure con la lama direttamente nell’acqua, afferrò un pezzetto sapone che stava lì sulla finestrella, su un piattino sbrecciato, e cominciò a lavarsi le mani direttamente nel secchio. Quando le ebbe lavate, tirò fuori anche la scure, lavò il ferro, e a lungo, per tre minuti buoni, cercò di ripulire il legno, là dove s’era insanguinato, provando a togliere il sangue persino col sapone. Poi strofinò il tutto con la biancheria stesa ad asciugare su una corda tesa da un capo all’altro della cucina, e infine, avvicinandosi alla finestra, esaminò a lungo la scure, con attenzione. Di tracce non ne erano rimaste, soltanto il legno era ancora umido. Con gran cura ripose la scure nel cappio sotto il soprabito. Quindi, per quanto lo permetteva la luce debole della cucina, esaminò il soprabito, i pantaloni, gli stivali. Dall’esterno a prima vista era come se non fosse successo nulla; solo sugli stivali c’era qualche macchia. Inumidì uno straccio e strofinò gli stivali. Sapeva tuttavia che non stava esaminandosi a dovere, che forse c’era qualcosa che dava nell’occhio e che lui non notava. Si fermò meditabondo nel mezzo della stanza. Un pensiero tormentoso, oscuro, stava nascendo in lui: il pensiero che stava impazzendo, e che in quel momento non aveva la forza né per giudicare, né per difendersi, che forse in generale non occorreva fare quel che invece stava facendo in quel momento… “Dio mio! Bisogna fuggire, fuggire!” borbottò, e si precipitò in anticamera. Ma qui l’attendeva un terrore tale, quale non ne aveva mai provato. Stava fermo, guardava, e non credeva ai suoi occhi; la porta, la porta esterna, quella che dall’anticamera dava sulle scale, quella stessa alla quale poco prima aveva suonato e dalla quale era entrato, era aperta, socchiusa quasi per un intero palmo: né serratura, né chiavistello, per tutto il tempo, per tutto quel tempo! La vecchia non aveva richiuso la porta dopo il suo ingresso, forse per prudenza. Ma Dio! L’aveva pur vista, dopo, Lizaveta! E come, come aveva potuto non pensare che doveva pur essere entrata in qualche modo! Certo non attraverso il muro! Si precipitò verso la porta e l’assicurò coi gancio. “Ma no, così di nuovo non va! Bisogna andarsene, andarsene…” Levò il gancio, spalancò la porta e si mise in ascolto sulle scale. Rimase a lungo in ascolto. Da qualche parte, lontano, in basso, con ogni probabilità sotto l’androne, due voci forti e acute gridavano, discutendo animatamente e bestemmiando. “Che fanno?…” Attendeva paziente. Finalmente, d’un colpo, tutto s’acquietò, come se il rumore fosse stato mozzato; se ne erano andati. Voleva uscire, ma all’improvviso al piano di sotto si aprì una porta sulle scale, e qualcuno cominciò a scendere, canticchiando un certo motivetto. “Ma perché fanno tutti tanto fracasso!” gli passò per la testa. Di nuovo richiuse la porta dietro di sé, e rimase in attesa. Alla fine tutto s’azzittì, non c’era un’anima. Stava già mettendo il piede sulle scale, quando all’improvviso udì dei nuovi passi. Questi passi erano molto lontani, ancora proprio all’inizio delle scale, ma egli in seguito ricordò in modo molto chiaro e preciso che fin dal primo rumore aveva subito cominciato a sospettare per un qualche motivo che fossero diretti immancabilmente lì, al quarto piano, dalla vecchia. Perché? Si trattava forse di rumori così particolari, così notevoli? Erano passi pesanti, regolari, non affrettati. Ecco, aveva già superato il primo piano, ecco, saliva ancora; il suono era sempre più distinto! S’udiva il respiro affaticato di colui che stava salendo. Ecco, si stava già avvicinando al terzo piano… Sta arrivando qui! E all’improvviso gli sembrò di essersi letteralmente irrigidito, come nei sogni, quando si sogna di essere inseguiti da vicino, ti vogliono ammazzare, e uno è come inchiodato al suolo e non riesce nemmeno a muovere le braccia. Da F. Dostoevskij, Delitto e castigo, A. Mondadori, Milano, 1994

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