La poetessa Alda Merini si racconta in un’intervista con Sergio Zavoli, tutta incentrata sul tema della sofferenza.
Tutti abbiamo delle ferite, dice lei, solo che alcuni le nascondono più di altri, come se fossero una vergogna.
Il fatto è che l’uomo non è fatto per essere eterno, anche se vorrebbe, e deve fare i conti con la sua provvisorietà.
Sergio Zavoli è morto esattamente un anno fa, il 4 agosto del 2020. In queste due pagine pubblichiamo un’intervista alla poetessa Alda Merini. È tratta dal libro Il dolore inutile, la pena in più del malato, scritto da Zavoli con la collaborazione di Umberto Rondi. Il libro è stato pubblicato da Laterza nel 2002, ma, per i temi trattati, rimane di grande attualità. Sergio Zavoli (1923-2020) è stato fra i più importanti e noti giornalisti italiani. Ha lavorato per la Rai dal 1948, chiamato da Vittorio Veltroni (padre di Walter). Della Rai è stato anche presidente, dal 1980 al 1986. Alda Merini (1931-2009) è stata una poetessa italiana. Nel 1947, a 16 anni, è stata ricoverata per la prima volta in una clinica psichiatrica, nella clinica Villa Turro di Milano. Nel 1961 è stata rinchiusa nell’ospedale psichiatrico Paolo Pini, sempre di Milano, dove è rimasta, con delle piccole pause, fino al 1972. Lei, una delle più reputate poetesse contemporanee, ha conosciuto il più subdolo dei dolori, quello psichico. Recentemente, intervistata in occasione del suo compleanno, è sembrata voler sminuire la drammaticità della lunga esperienza in manicomio, parlandone come di un luogo a suo modo protettivo. Perché? Dopo la chiusura dei manicomi, questa gente è andata un po’ tutta allo sbando. C’è chi ne ha approfittato! Avrebbero forse dovuto creare altri ospedali, magari generici, con meno connotazioni psichiatriche... Perché una volta lei ha detto che ha sofferto, in certo qual modo, più fuori che dentro l’ospedale? La visione della follia è molto personale, il manicomio poteva regalarla al paziente, è successo anche a me, fino a imparare che ci si può vivere dentro. Invece, fuori, la follia viene castigata, i malati sono veramente perseguitati. Diciamo, allora, che la vera follia è la normalità, secondo me. Anche Seneca diceva «Beati quelli che cureranno coloro che si ritengono sani». Si ritengono sani proprio perché mentre il manicomio registrava i nostri dubbi, le nostre paure, le nostre manie persecutorie, fuori questo dialogo non è possibile. Una volta lei ha parlato di una ferita lacerante, di una ferita d’amore che forse è stata anche una delle cause scatenanti di questo suo grave malessere. Sì, ho avuto una passione durante il matrimonio, ma per niente al mondo avrei lasciato mio marito! Sì, l’amore, la passione per un altro può essere una causa scatenante, però quando c’è una fede solida, e si è sposati, bisogna superare queste tentazioni. Le abbiamo avute un po’ tutti. È uno degli inconvenienti che possono capitare. Allora, a volte, il manicomio si presenta come un crepaccio in cui si rischia di affondare. Il venire da un giorno all’altro catapultato in un ambiente restrittivo deve essere stato tremendo, scusi se glielo ricordo. Ah, guardi, è stata una cosa di uno spavento incredibile! Io non sapevo nemmeno che ci fossero i manicomi, a quei tempi. Ci sono andata con una certa esultanza perché pensavo di fare una passeggiata, una visita. Anzi, l’avevo anche un po’ desiderato, perché ero stanca, in quel periodo ero depressa. Ma lei sapeva che sarebbe andata in un manicomio? No. La condussero i suoi genitori, i suoi parenti? No, no, mio marito, credo. Il fatto che non le fu detta la verità, la ferì? Beh, sì, mi sconvolse; mi venne una tale rabbia... mio marito mi venne a prendere due-tre giorni dopo, ma non tornai a casa più. Non volli più tornare. Perché non avevo capito! Mi è venuto un accidente quando m’hanno chiuso i cancelli dicendomi che quella sera non sarei tornata a casa. L’idea della separazione da mio figlio mi ha fatto impazzire... Quello che ha scatenato veramente la follia è stata l’idea di non vedere la famiglia. Ed è successo quella sera stessa del ricovero? Sì, perché probabilmente era un giorno in cui non c’era il medico di guardia. Io ho pensato, più che altro, allo spavento dei miei bambini e sono impazzita di terrore. E la diagnosi qual era... La mia era ebefrenia o schizofrenia giovanile. In quale ambiente familiare ha vissuto l’infanzia, la giovinezza? In un ambiente di amore assoluto. Io ho avuto una famiglia meravigliosa, dove non c’è mai stato un dissapore, dove tutto era bello, era proporzionato, dove si dava un grande valore ai bambini. E veramente eravamo i piccoli re, le piccole regine, i nostri genitori erano orgogliosi di noi, non si montavano la testa. E l’ambiente esterno le diede delle sofferenze? A scuola, per esempio? No, sono sempre stata una privilegiata. Sono sempre stata dotata di grande memoria e ho fatto poca fatica a studiare. Imparavo sùbito. Come si è fatto strada in lei questo progressivo malessere? Mah, credo sia stata un po’ una depressione post partum. Non curata, sottovalutata. Io, per esempio, sto seguendo questa storia di Cogne (il riferimento è al delitto di Cogne, il 30 gennaio 2002, con la morte del piccolo Samuele Lorenzi, di tre anni, per la quale nel 2008 la cassazione ha condannato la madre, Anna Maria Franzoni, ndr). Penso che il malessere e la pericolosità, sono stati poco considerati. Spesso la pazzia scoppia e si preannuncia sempre come una forma di nevrosi, se non viene presa in tempo è come una bronchite che può diventare broncopolmonite. Ricorda i primi momenti in cui provò una forma di dolore mentale, o interiore? Le fu possibile comunicare agli altri la sofferenza di quei momenti? Ebbe qualche occasione per stabilire relazioni positive? Con chi? Mi accorgevo che stavo in uno stato un po’ confusionale, questo sì. Ero molto confusa. Poi avevo avuto una delusione per un libro che non mi era stato pubblicato, che ritenevo mi fosse stato rubato. Avevo ventisei o ventisette anni. Se di lei qualcuno avesse detto, e forse sarà successo, che era folle, o gravemente disturbata, quale reazione avrebbe avuto? E le anomalie degli altri, magari nascoste sotto un’apparente salute, le vide mai? Quante volte avrebbe avuto motivo di far sua la frase di Seneca «Chi dunque guarirà coloro che si credono sani»? Mi fanno molta pena quelli che credono di essere qualche cosa di più. La salute e la vita possono esserci tolte in qualsiasi momento. Questa provvisorietà della vita, ma anche le gioie, dovrebbero farci riflettere molto di più. Qual è la sua interpretazione di questo pensiero di Soren Kierkegaard: «Io dico del mio dolore quel che l’inglese dice della sua casa: il mio dolore è il mio castello»? Quando se ne capisce le potenzialità... Bisogna renderlo dinamico, il dolore. Perché se lei nel dolore fa un vuoto, scava un orrore, lei ne muore, ne muore sepolto. Se invece lo rende attivo, cerca di capirlo, di entrarvi senza paura di conoscerlo, penso che lei abbia raggiunto una certa felicità. Il dolore è anche il demonio. Questo corpo a corpo con il demonio, una malattia mentale, questa voglia di superarlo, di sopravanzarlo può esser già un buon incentivo, una buona partenza. Esiste un dolore di cui si parla poco: secondo alcuni studiosi con un apparente paradosso, le persone molto creative e dotate al contempo di spiccata sensibilità etica, sembrano come tagliate fuori da quello che viene chiamato «sistema». Il dolore di chi, pur valendo, vive ai margini: ha mai riflettuto su questo aspetto del dolore? Certo, ci vuole molta fatica, molta fatica a percorrere questo viaggio all’interno di noi, è faticosissimo, è una perlustrazione che serve a renderci la vita più interessante. Poi è una richiesta continua dell’intelletto di conoscerci. Quali sono stati i momenti più oscuri, più chiusi, più laceranti? Non me li ricordo più. Francamente, alle volte rispondo anche «nessuno» perché mi si presenta un passato pieno di felicità – fatta eccezione per il fatto che i miei figli sono cresciuti lontano da me – si è creato un angolo di felicità, di accettazione, di apparizioni continue, di isolamenti continui. In che senso apparizioni continue? Stavo guardando adesso Bernardette, e sento quello stato di grazia. C’è un proverbio cinese che dice: «Dopo aver pianto si guarda meglio il cielo». Ah, certo! Ma bisogna saper piangere. Comunque al di là di tutto quello che si può dire, la sofferenza mentale resta dura! È una delle torture peggiori che possa capitare a un uomo. Perché l’intelletto è la cosa di cui l’uomo va più orgoglioso, anche più della sua immagine fisica, della sua bellezza. L’intento dell’ospedale era proprio, come è capitato a me, voler rubare la creatività, abbrutirla, appiattirla. Nel caso di un poeta voleva dire ucciderla! Giuseppe Ungaretti disse: «È il mio cuore il paese più straziato», ma in un altro momento scrive il contrario: «Non mi lasciare, resta, sofferenza». Ha mai sentito il dolore come amico e maestro? Quando invece l’ha odiato e respinto integralmente? Le posso fare un esempio: alle volte mi lamento di avere pochi soldi, poi, quando li ho, mi affretto a spenderli perché se vivessi nell’agiatezza forse non combinerei più niente. Allora creo le premesse per dover lavorare, capisce? Pensi che noia sarebbe svegliarsi e avere tutto, non avere mal di denti, la sciatica, l’innamorato che non viene: una noia mortale! È stato detto che solo chi passa per il gelo del dolore arriva all’incendio vero dell’amore. Lei crede che la sofferenza vissuta abbia alimentato in modo decisivo – «incendiandola», appunto – la sua capacità di amare? E, aggiungo, la conoscenza del mondo? Le dirò una cosa: io sono cattolica e penso che Gesù Cristo abbia pagato di persona per risparmiarci almeno la parte mortale del dolore, la parte che uccide. Queste tracce di ustioni le abbiamo addosso, le sentiamo tutti! L’approssimarsi della morte, della vecchiaia, il calvario della vita! C’è però chi le nasconde come una vergogna, e non come se portassero, invece, a una grande conquista, a un rasserenamento o a una visione della vita di Dio e anche di noi stessi. A fronte di tanto stress che porta qualcuno persino a uccidere per dei motivi futili, chi ha avuto un grande dolore come lei dà un senso diverso alla vita? Ah, certo, una volta che si esce dal manicomio trovi che il mondo è ancora lì ad aspettare da tanti anni. Io spesso racconto questo aneddoto: a un certo punto è venuta una ragazza e mi dice «lei fa qualcosa di strano nella vita?», «sì mi piace tanto fare le pulizie di casa e lavare i pavimenti», rispondo, «ma è normale», dice lei..., «si ma io li lavo con lo champagne». «Ma è matta?» «Sì, perché quando uno esce da un lager dice champagne per brindare alla vita»! Ma questo è un lungo discorso sul giudizio, la possibilità e l’arbitrio dell’uomo di rinchiuderne un altro. Trovo ciò talmente crudele, talmente arbitrario! Alle volte, si poteva essere rinchiusi perché eri un poeta, come nel mio caso. Alcuni perché erano belli! Per i medici un poeta era una persona inutile, che non produceva. Lei venne ritenuta, dal loro punto di vista, anche una persona malata oltre che un artista? Ma io avevo una depressione, una forte depressione, certo non da castigarsi in manicomio! Lei ha mai avuto scarsa autostima ? No, no. Si è amata e si ama abbastanza? Molto, io mi voglio molto bene. Ma mi voglio bene in un modo giusto, sereno, senza pensare che sono una poetessa. Io mi voglio bene perché sono una persona, ecco. Mi voglio bene perché il mio corpo, poverino, con tutti i suoi difetti mi ha sempre tenuto compagnia e qualche volta mi ha anche salvato la vita. Saul Bellow ha scritto: «La sofferenza è forse l’unico mezzo valido per rompere il sonno dello spirito». Questa frase non le sembra un po’ enfatica, non si cresce, non si diventa consapevoli anche nella gioia o, almeno, nella quiete? Molti fanno della letteratura. Io le dico che il vero poeta crede in ciò che dice. Molti vogliono essere eccentrici o intellettuali, il poeta invece è un cuore. E credo che forse, dopo, capisce quello che ha detto. Io penso che il poeta, in principio, non capisce mai niente, anche nel mio caso. Questa è la vera felicità. Lei ha detto: «Il poeta non è mai solo, è sempre accompagnato dalla meraviglia del suo pensiero». Ma le succedeva anche quando era in manicomio? No, lì non pensavo perché non ne avevo materialmente il tempo. Poi, ero impaurita. Se lei è contratto dalla paura diventa interiormente rachitico. Non esce né la bellezza fisica, né quella morale, c’è questa contrazione da manicomio, questo svenimento, questo cercare di non farsi vedere, di non essere continuamente puniti, che determina un abbrutimento del proprio essere. La paura non ha mai saziato l’universo! E neanche l’uomo. Ha sempre fatto morire di spavento. Non me, però! Lei prova rabbia nei confronti di qualcuno? Sì, sì. Io provo rabbia per quelli che sono indecisi, quelli che non vengono all’appuntamento all’ora giusta, quelli che d’abitudine non tengono in conto l’altro, che mi prendono così, per una qualunque, e pensano che sia facile far poesia, che sia facile diventare celebri, che sia facile anche soffrire! Non tutti, invece, sanno soffrire. Lei sa soffrire? Percepisce la sofferenza come un ’amica o come un’insidia? Io sì, so soffrire. E percepisco la sofferenza come un fatto di vita perché fa parte della vita. Perché si parla più del dolore che della letizia? Ippolito Nievo diceva che l’uomo ha novantanove sensi per il dolore e uno per la felicità... Perché l’uomo è talmente arrogante che è sempre perennemente offeso. Tutto quello che gli capita è un’offesa personale. Lei faccia caso, i santi, i filosofi hanno sempre visto che purtroppo accade anche il brutto. Insomma ogni tanto piove, e non lo si vuole accettare; cioè si crede, e qui nasce proprio l’idea dell’aldilà, del paradiso, della vita terrena, di stare qui sulla terra in eterno e allora si è continuamente alla ricerca di una stabilità che non è di questo mondo; senza voler fare della polemica cattolica. L’uomo cerca di stare il meglio possibile, non ci riesce, non ci riesce perché è fatto per la provvisorietà. Il vittimismo presente nelle sue varie forme in ognuno di noi quanto l’ha riguardata? L’altro giorno sono scesa e sulla via una mi ha detto: «Oh, povera cara», e io le ho detto: «Povera sarà lei, e cara non lo voglio sentir dire». Mi danno fastidio le vittime perché o sono cattive d’animo o cercano di attirare su di sé l’interesse degli altri. Il vittimismo è un po’ come il capriccio del bambino che tante ne fa finché lei lo pesta ben bene perché non ne può più. Bisogna capire che ognuno soffre a modo suo, alle volte ci si può anche uccidere per un gatto che muore, dipende dal modo di amare. Ricorda qual è stata l’esperienza che le ha dato più sollievo? La libertà.
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